Concetto di giustizia distributiva

La giustizia distributiva ha per oggetto la ripartizione dei vantaggi tra gli in­dividui che partecipano ad uno schema di cooperazione all’interno di una società; le teorie della giustizia, a loro volta, si propongono di definire e valutare le regole che presiedono a tale ripartizione. La definizione di giustizia distributiva, tuttora accolta nel dibattito teorico, risale ad Aristotele per il quale essa “…consiste nella ripartizione degli onori, delle ricchezze, e di tutte le altre cose divisibili per chi fa parte della cittadinanza (in esse infatti uno può avere rispetto a un altro un trattamento iniquo oppure equo)”[1]. La giustizia distributiva riguarda pertanto l’equità della ripartizione in una comunità politica dei beni materiali e morali. In maniera coerente, per Rescher: “Il compito di una teoria della giustizia distributiva è di fornire un apparato nei cui termini si possano valutare i meriti e i de­meriti relativi di una distribuzione, effettuando questa valutazione da un punto di vista etico o morale”[2].

La rilevanza della giustizia quale giustificazione delle istituzioni sociali è invece efficacemente affermata da Rawls: “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste. Ogni persona possiede un’inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri”[3].

La giustizia distributiva deve essere inquadrata nelle sue relazioni con altre forme di giustizia, in particolare la giustizia come legalità, la giustizia commutativa e la giustizia regolatrice (o riparatrice). Questi concetti, e le relative distinzioni, sono stati introdotti originariamente da Aristotele, nel libro V dell’Etica Nicomachea, e si sono consolidati quale fondamento per gli sviluppi teorici anche contemporanei. L’esigenza delle distinzioni è una conseguenza dell’uso del termine giustizia per significati non coincidenti: “Sembra appunto che della giustizia e dell’ingiustizia si parli in molti sensi, ma essendo questi sensi assai vicini tra loro a causa della loro omonimia, essi sfuggono e non sono evidenti come accade invece alla cose lontane tra di loro”[4].

La prima distinzione proposta da Aristotele è tra giustizia come rispetto della legge e giustizia come imparzialità, o equità: “Vediamo dunque in quanti sensi si dice che uno è ingiusto. Sembra che ingiusto sia tanto il trasgressore della legge quanto chi vuole un vantaggio non dovuto, quanto l’iniquo, per cui è evidente che è giusto sia chi è rispettoso della legge che chi è equo. Perciò è giusto sia ciò che è legale sia ciò che è imparziale, è ingiusto sia ciò che è illegale sia ciò che è iniquo”[5]. A sua volta la giustizia come imparzialità o come equità si articola in diverse specificazioni a seconda che essa riguardi: (1) equivalenze nel valore di beni (o mali) sociali differenti; (2) equivalenze di valore tra attributi dei soggetti partecipanti alla comunità politica e attribuzioni che quest’ultima deve loro. Aristotele intende tutti questi come casi di giustizia parziale finalizzati a comporre un quadro di giustizia complessiva.

Nel primo caso la giustizia come equità riguarda le relazioni sociali (tra membri della polis ai tempi di Aristotele; tra soggetti privati, individuali o collettivi, ai tempi nostri), nel secondo le relazioni politiche (tra polis e cittadini, tra stato e soggetti privati). Nel primo si parla di giustizia commutativa se le equivalenze, derivando da scelte volontarie dei soggetti coinvolti, riguardano beni sociali (ad esempio merce-prezzo, lavoro-salario). La giustizia commutativa consiste semplicemente nella restituzione di quanto ricevuto o del suo equiva­lente, secondo un principio di reciprocità, e riguarda tipicamente l’area della cooperazione volontaria tra gli individui. Siamo di fronte, invece, a giustizia riparatrice se, a seguito di azioni subite e non volute, le equivalenze riguardano fenomeni di segno negativo (ad esempio danno-indennizzo, reato-pena).

Nel secondo caso si parla, invece, di giustizia distributiva, o attributiva, la quale consiste, secondo Aristotele, in assegnazioni ai cittadini proporzionali ai rispettivi valori o meriti[6]; un’equa distribuzione è pertanto quella che si realizza attraversa un’eguaglianza delle attribuzioni ponderate con i meriti[7]. La teoria non implica esiti egualitari, se non per cittadini ritenuti di identico merito, ed è all’origine della rilevante di­stinzione tra equità orizzontale ed equità verticale. Infatti, per Ari­stotele: “…si pensa che il giusto sia eguaglianza, e lo è, ma non per tutti, bensì per gli uguali; anche l’ineguaglianza si pensa sia giusta, e lo è, in realtà, ma non per tutti, bensì per i diseguali…” [8].

E’ una regola generale di giustizia che richiede, per divenire applicabile, che:

a) Si identifichino le attribuzioni di valore delle persone avente rilievo etico per la distribuzione, quella su cui misurare l’eguaglianza e l’ineguaglianza (per Sen “ogni teoria morale dovrebbe partire da una diagnosi iniziale del valore…”[9]).

b) Si individuino le tipologie di beni da attribuire (nel linguaggio delle diverse teorie contemporanee della giustizia: reddito, utilità, beni primari, risorse, libertà, ecc.).

Aristotele riconosce che l’applicazione della regola richiede giudizi di valore; essi sono inevitabilmente soggetti a variare secondo i gruppi sociali e le ideologie. Nelle parole di Aristotele: “… tutti infatti concordano che nelle ripartizioni vi debba essere il giusto secondo il merito, ma non tutti riconoscono lo stesso merito, bensì i democratici lo vedono nella libertà, gli oligarchici nella ricchezza o nella nobiltà di nascita, gli aristocratici nella virtù”[10]. Il filosofo di Stagira non prende tuttavia posizione e la sua teoria, a differenza dei principali contributi moderni, non perviene alla completezza necessaria per prescrivere e valutare situazioni distributive concrete. A differenza dell’utilitarismo e della teoria rawlsiana, non contiene la risposta alla domanda: ‘l’eguaglianza in che cosa tra i cittadini è giusta?’ Possiamo pertanto pensare alle moderne teorie della giustizia distributiva come a tentativi di completamento di quel discorso. Esse consentono l’applicazione concreta della regola aristotelica di giustizia attraverso la definizione di una grandezza con cui valutare il merito degli individui e l’identificazione dei beni che devono essere oggetto di attribuzione pubblica. Questo è il compito delle regole specifiche di giustizia contenute nelle diverse teorie, ma esse sono desunte da principi morali che differiscono necessariamente tra le diverse scuole. Da qui il panorama plurale delle teorie della giustizia distributiva con cui è necessario confrontarsi.

Le distinzioni aristoteliche tra le diverse forme di giustizia appaiono fondamentali anche ai fini del dibattito contemporaneo e della coesistenza di teorie conseguenzialiste e teorie, invece, disinteressate alle conseguenze. Da un lato, infatti, la giustizia come equità è necessariamente sensibile alle conseguenze e, nello stesso tempo, non può trascurare le procedure con cui sono realizzate. Uno schema di attribuzioni ai membri della comunità politica non può essere valutato come equo se non osservandone gli effetti; nello stesso tempo, uno schema equo sarebbe ingiusto se realizzato contra legem.

Dall’altro lato la giustizia come legalità, che richiede il rispetto delle norme, è necessariamente deontologica e non conseguenzialista ma, se è giusto rispettare la legge, il criterio con cui valutare la bontà di una legge è l’equità. Una legge non equa è ingiusta e deve essere modificata o abolita, come efficacemente ricordato da Rawls:“…leggi ed istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste”[11]. Poiché uno schema completo di giustizia, nel senso aristotelico, include tanto la legalità che l’equità, esso non è conseguentemente rappresentabile da una teoria che dedichi attenzione esclusiva alle conseguenze e neppure da una teoria che dedichi attenzione esclusiva al rispetto di corrette procedure.

Compito di un ordine giuridico è di preservare un ordine sociale equilibrato. Compito di uno schema di giustizia commutativa, e riparatrice, è di garantire l’equità a seguito dei mutamenti e delle perturbazioni che interessano l’ordine sociale. Mutamenti equi di un ordine sociale garantiscono l’equità dello stato finale a condizione che anche quello iniziale sia equo; ma ciò che realizza tale condizione preliminare è il corretto operare della giustizia attributiva. Se lo stato iniziale non è equo, non sarà sufficiente il corretto funzionamento della giustizia commutativa e riparatrice a portare lo stato finale all’equità. Qui la giustizia attributiva deve intervenire direttamente con un’azione correttiva; in maniera analoga se l’equità di uno stato iniziale è compromessa da un imperfetto funzionamento della giustizia commutativa e riparatrice. In altre parole, se nello stato di partenza tutti hanno le posizioni e i beni che meritano, secondo il criterio di giustizia accolto in quella società, e le modificazioni successive sono equamente compensate, lo stato finale si rivelerà altrettanto equo di quello di partenza[12]. In tutti gli altri casi è necessario che la giustizia attributiva intervenga direttamente a ripristinare condizioni di equità.

Il legame sussistente tra i due concetti aristotelici di giustizia come legalità e giustizia come equità è illustrato in maniera esemplare da Bobbio in un passo che conviene riportare nella sua interezza: “Non è difficile … ricondurre uno dei due significati all’altro: il punto di riferimento comune a entrambi è quello di ordine o di equilibrio o di armonia o di concordia delle parti di un tutto. Sin dalle più antiche rappresentazioni della giustizia, questa è sempre stata raffigurata come la virtù o il principio che presiede all’ordinamento in un tutto armonico o equilibrato… delle società umane. Ora, affinché regni l’armonia nell’universo o nella civitas è necessario: a) che ognuna delle parti abbia assegnato il proprio posto secondo ciò che le spetta, il che è l’applicazione del principio suum cuique tribuere, massima espressione della giustizia come eguaglianza; b) che, una volta che a ogni parte è stato assegnato il proprio posto, l’equilibrio raggiunto sia mantenuto da norme universalmente rispettate. Così l’instaurazione di una certa eguaglianza tra le parti e il rispetto della legalità sono le due condizioni per l’istituzione e la conservazione dell’ordine o dell’armonia del tutto che è, per chi si metta dal punto di vista delle parti e non del tutto, il sommo bene. Queste due condizioni sono entrambe necessarie per attuare la giustizia, ma soltanto insieme sono anche sufficienti”[13].


[1] Aristotele, Etica Nicomachea, par. 1130b, 30 ss.

[2] Rescher, 1966, p.7.

[3] Rawls, 1971, p. 21 dell’ed. it. 1989.

[4] Etica Nicomachea, par. 1130b, 25 ss.

[5] Ibidem, 30 ss.

[6] La giustizia commutativa e riparatrice garantisce l’equità nei flussi di valori sociali, la giustizia distributiva negli stock.

[7] “Necessariamente dunque il giusto comporta almeno quattro elementi: due sono infatti le persone per le quali si trova a essere e due gli oggetti rispetto ai quali può esistere. E tale sarà l’eguaglianza: per le persone e nelle cose; e quali sono i rapporti tra le cose, tali dovranno essere anche i rapporti tra le persone”, Etica Ni­comachea, par. 1131a, 20 ss.

[8] Politica, par. 1280a.

[9] Sen, 1992, p. 125.

[10] Etica Nicomachea, par. 1131a, 25 ss.

[11] Rawls, 1971, p. 21 dell’ed. it. 1989.

[12]

[13] Bobbio, 1995, p.7. rity69


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